Ovvero: un post tira l’altro.
Traduttore:
scarpolin = calzolaio
Scarpolini = patronimico o successivamente anche matronimico e nome famigliare non ufficiale:
el Bruno dei Scarpolini, la Bepina Scarpolina, la Picena dela (dela con una sola l) Bepina dei Scarpolini…
Il mio nonno materno era calzolaio, non di quelli che si limitavano ad aggiustare le scarpe, lui le scarpe oltre ad aggiustarle le faceva.
Ricordo la vecchia bottega di casa, una stanzetta a piano terra, a sinistra della porta d’entrata;
(Foto di MoscO) (La porta è ancora la stessa, persino i vetri sono gli stessi di quelli della foto precedente, settanta anni dopo)
un deschetto davanti alla piccola finestra incastonata in muri fatti di pietra spessi novanta centimetri, tre sgabelli attorno e sopra ciotole piene di chiodi: a spillo, con la testa grande e piatta, di legno (i cavicli), borchie con la testa tonda, semenza con il gambo quadro e tanti ancora. Poi trincetti, la pietra e la cote per affilarli, lesine, aghi grandi e piccoli, curvi e dritti, il blocchetto della pece per impeciare i fili…
Sulla parete opposta una scansia piena di pezze di pelle, di fogli di gomma e soprattutto forme in legno, piedi e piedini di tutti i tipi. C'erano anche le forme personalizzate per chi nel paese aveva qualche peculiarità, il dito storto del Gioanìn o l'alluce valgo della Meneghina...
Allora le scarpe dovevano durare ed essere comode, si camminava tanto: nei boschi, nei campi, sulla neve... Scarpe solide da lavoro e scarponi da montagna per lo più, ogni tanto qualche scarpina fine, per i pochi benestanti di allora.
Mia madre, che se ci fosse ancora avrebbe compiuto i novant'anni da poco, raccontava con nostalgia di un paio di scarpine in capretto, morbide ed eleganti, che suo padre aveva fatto per lei; le uniche fini che avesse mai avuto da ragazza.
Figlia di un calzolaio era tra i pochi bambini previlegiati che anche nella buona stagione potevano portare le scarpe, anzi, doveva portarle. Lei se ne adombrava e, non volendo essere diversa, uscita di casa le toglieva nascondendole nella legnaia per correre scalza a giocare con gli amici.
Eccola qui in primo piano, scalza, che legge.
Negli anni ‘70 la bottega e la cantina furono ristrutturate e diventarono un minuscolo appartamento dove andavamo durante le vacanze.
Non tutto però è scomparso, ecco un ritaglio da una foto del ‘73, in alto sopra la finestra c’è qualcosa…
Alcune delle vecchie forme in legno.
Che dipenda da questa storia la mia passione per le scarpe?
6 commenti:
che ricordi bellini, altri tempi davvero
dicevo:
ti piacciono le scarpe perché sei una donna, che altro ;)
(il nonno scarpolin conosceva piedi e scarpe di tutto il paese e oltre: durante la guerra si accorse che c'era un rifugiato a casa di paesani perché gli portarono da risuolare un paio di scarpe alle quali non sapeva abbinare i giusti piedi)
Deve essere stato un artigiano molto bravo, ma che bei ricordi!
Con un paio di scarpe buone si può aspirare a cavalcare le stelle! :-)
.....bello quando un racconto porta la mente lontana .....
Ciao Ernest,
belle anche le tue storie di Teatro Sociale. Quando vesti i panni di un personaggio sei al tempo stesso più protetto e più esposto, emozioni molto forti.
MoscO,
ti rubo il commento e lo aggiungo ai post.
Sara,
era bravo? Non lo so ero troppo piccina quando è morto ma mi piace pensare che lo fosse ed il commento di MoscO, mia sorella, direi che lo conferma.
Di lui purtroppo ho pochi ricordi, un nonno anziano e malato che mi faceva il solletico per farmi ridere.
Giò,
Mi piace la tua frase, in effetti nella mia follia mi è capitato qualche volta di chiedermi cosa sarebbe essenziale avere in caso di crisi gravissima, come una guerra o un disastro, e le scarpe da montagna sono rientrate tra le priorità.
Speriamo non succeda mai, anche se gli scarponi li ho. :)
Semola,
non scrivi molto sul tuo povero blog ragazzo, ma accipicchia sai farci venire l'acquolina in bocca!
Adesso non farci aspettare sino a quando togli il lardo dalle conche per raccontarci qualcosa, mi raccomando.
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